16.3.10

IN PERFETTA SOLITUDINE



Chi opera in campo creativo è obbligato a mettere in conto un’overdose di (beata) solitudine nel suo (in)quieto vivere.

Norma comune a tutti coloro che pensano, scrivono, disegnano, inchiostrano, etc. e non hanno (o non vogliono) la fortuna di condividere uno studio/luogo/stanza con altri autori e/o umani di varia entità che ne assecondino ed alleggeriscano la follia.

Ovvio, non sempre le convivenze vanno per il giusto verso e ci sarà sempre qualcuno che dimentica di versare la quota dell’affitto o che spacca la catenella del cesso ma cambiare studio o collega è meno complicato che cambiare partner.
Le affinità elettive non sono, ahimè e per fortuna, cosa di tutti i giorni.

Quello che la mia giovine vita non ha avuto occasione di approfondire appieno è proprio questo: uno studio ove recarsi a lavorare, la convivenza (e quando ne ebbi la possibilità ero troppo scapestrato per capirne l’oggettivo valore ed approfittarne).
Una stanza di vita quotidiana dove scambiare pareri su un’anatomia dubbiosa o sulla bontà di un’intuizione, commentare fatti e ipotizzare nuove direzioni, guardare le fighe dalla finestra, cazzeggiare.

Ciò che all’oggi frena la mia possibilità di avere tal loco è un fatto meramente economico, ma questo è un altro discorso.

Il concepimento di un’opera e la sua evoluzione verso un palpabile oggetto cartaceo abbisogna di grande incoraggiamento interiore, di nobili motivazioni del tutto inventate per autoconvincersi (ogni giorno e in ogni momento) che la via intrapresa è la più giusta da percorrere, che il demone ha ragione.
Che la donna nuda che ti carezza la testa mentre disegni è solo di passaggio.

E dopo una full immersion lavorativa di qualche mese, in perfetta straniante solitudine, in dubitativa compagnia di angosce immateriali, riemergere a nuova vita comunitaria non è cosa semplice e lo studio evita proprio questo straniamento, dimensionando il lavoro in un equilibrio più naturale di quotidiana sfida condivisa tra colleghi.

I primi giorni di emersione sono quelli di un povero disadattato, mezzo muto e un poco rimbambito, che strabuzza gli occhi e guarda gli astanti come pericolosi alieni.

Poi, lentamente la parola fluidifica, si ricomincia a (soprav)vivere in ogni dove e si ha di nuovo l’impressione, nel giro di qualche mese, di perdere tempo prezioso.

Per ciò rinasce l’esigenza di tornare nel silenzio di una meravigliosa solitudine per comporre ancora, sull’improvvisato tavolo della cucina.

In moto perpetuo.
Circolare.
Ciclico.

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